“L’estate in cui mia madre ebbe gli occhi verdi” di Tatiana Ţîbuleac ci insegna l’importanza del perdono
“Quella mattina in cui la odiavo più che mai, mia madre aveva compiuto trentanove anni. Era piccola e grassa, stupida e brutta. Era la madre più inutile che fosse mai esistita. La guardavo dalla finestra, mentre se ne stava al cancello della scuola come una medicante. L’avrei uccisa senza pesarci due volte. Muti e spauriti, gli altri genitori mi passavano accanto. Un triste cumulo di perle finte e cravatte da due soldi che veniva a prendere da scuola i figli falliti lontano dagli occhi della gente. Almeno loro avevano fatto lo sforzo di venire su. Mia madre se ne sbatteva di me e del fatto che, nonostante tutto, avessi finito la scuola…”
Tra migliaia e migliaia di autori e titoli nel panorama letterario contemporaneo, raramente mi è capitato di leggere un incipit di romanzo folgorante quanto quello di L’estate in cui mia madre ebbe gli occhi verdi (2023, Keller) di Tatiana Ţîbuleac. Un inizio deciso, secco, sfacciato, che riesce però a catturare l’attenzione del lettore come pochi altri. Se normalmente siamo abituati a leggere storie di madri amorevoli, stereotipate, che sono sempre presentate come figure di rifermento degli eroi dei nostri romanzi preferiti, lo scenario che si presenta qui è completamente opposto: ma che razza di madre può essere quella il cui figlio detesta a tal punto, da essere disposto persino a ucciderla?
“Pregavo perché quella giornata finisse quanto prima. Perché la Terra si frantumasse e mia madre sparisse nelle sue profondità. O io. Perché potessi camminare dentro di lei, nascere alla rovescia, e quando non ci fossi più stato, correre finché non mi avessero ceduto le gambe.”
La voce narrante è quella di Aleksy, protagonista del romanzo, che a partire da un lontano episodio della sua adolescenza, racconta del drammatico rapporto con la madre, verso cui, come si nota fin da subito, prova solo disprezzo e rabbia, niente che possa ricordare anche solo vagamente un cenno di affetto. Aleksy è un giovane uomo e famoso pittore, divenuto invalido in seguito a un brutto incidente. Da adulto ha sviluppato un trauma, a causa del rapporto irrisolto avuto con la madre durante l’infanzia e l’adolescenza, per cui, dietro consiglio di un suo psichiatra, decide di rivivere l’estate dopo il suo ultimo giorno di scuola, quando era ancora solo un ragazzino. Un’estate in cui partì per un villaggio di campagna in Francia, costretto dalla madre a trascorrere alcuni mesi da solo con lei, che cambiò la sua vita per sempre, irrimediabilmente. Proprio qui ha inizio la sua storia, raccontata però “al contrario”, a partire dall’inizio della fine.
Tatiana Ţîbuleac (1978, Chişinău) brillante autrice e giornalista moldava, in questo suo secondo romanzo, che fa seguito a Fabule moderne (2014), colpisce con la sua narrazione leggera, ironica, ma anche tagliente, dove nelle bizzarre metafore e nelle descrizioni si percepisce sempre una nota di cinismo verso la vita nella sua interezza: un sentimento di generale indifferenza contraddistingue l’atteggiamento di quasi tutti i personaggi, e in particolar modo il protagonista e sua madre, dove però emerge, seppur celato, anche un lieve senso di malinconia. Ecco che allora, la libertà e la vita di un adolescente problematico e solitario come Aleksy, uscito da un istituto per ragazzi difficili con problemi psichiatrici e comportamentali, viene paragonata alla “solennità di un cimitero addobbato”, dove lui si sente sempre come una “nullità”, uno “scarto umano, polipo, ciste”, un uomo inutile e superfluo, diventando in un certo modo simile all’uomo del sottosuolo dostoevskiano, e dove, proprio come lui, preferisce ignorare il suo malessere e la sua malattia, rifiutando di curarsi.
Attraverso la narrazione del protagonista, osserviamo uno spaccato di vita quotidiana, nelle vicende di una famiglia qualunque di immigrati polacchi nella periferia di Londra, ma forse, proprio per questo, a farla da padrone è il disagio, sociale, economico e soprattutto affettivo, creando i presupposti affinché la famiglia intera si sgretoli, non lasciando intatto nulla del suo nucleo originario. La famiglia di Aleksy è disfunzionale, non solo per il rapporto con la madre, ma anche per il padre camionista alcolizzato, fuggito con un’amante più giovane, la sorellina minore Mika, morta anni prima e la nonna materna, l’unica dal carattere solido e deciso, che fatica però a tenere insieme tutti i pezzi.
“Sentivo per la prima volta meraviglia, pietà, gioia: sentimenti di cui non mi credevo capace e che non mi erano mai serviti prima. Era come se mi fossero spuntati, finalmente, gli occhi – quelli veri, quelli nudi e crudi, con le retine verso il fuori – che vedevano, oltre la pelle e le ossa, più intensamente dei colori e delle forme, più lontano del cielo e più in profondità della terra.”
In questo senso L’estate in cui mia madre ebbe gli occhi verdi è un romanzo estremamente realista, che non fa sconti al lettore e non promette un lieto fine, lasciando ognuno dei membri della famiglia di Aleksy solo, come un frutto maturo, caduto lontano dal suo albero. L’accostamento a frutti e fiori non è casuale, dato che proprio il ciclo della natura, che fa sì che i fiori primaverili diventino frutti maturi sul finire dell’estate, è un tema centrale all’interno del romanzo, con un diretto rimando all’esistenza dei protagonisti, dove però a dominare sono “papaveri insanguinati”, fiori gialli “puzzolenti” e girasoli appassiti, mentre i frutti diventano maturi, ma sono anche pieni di vermi che li fanno marcire piano piano, simbolici nell’esprimere quanto possa essere difficile ricostruire il rapporto con una madre che non si è mai comportata come tale, e che per questo viene trattata dal protagonista in modo crudele.
“Un corpo divorato dal cancro e un cervello malato. Quell’estate ci autodistruggemmo più di tutti gli anni precedenti messi insieme, eppure non eravamo mai stati più pieni di vita di così. Mia madre sembrava una pianta da appartamento portata sul balcone. Io sembravo un criminale lobotomizzato. Eravamo, finalmente, una famiglia.”
Eppure, anche nelle situazioni più compromesse, appare un barlume di speranza: le drammatiche vicende familiari di Aleksy, il dolore per la morte della sorellina Mika, il risentimento per la fuga del padre, il disagio psicologico e la scoperta della malattia della madre, gradualmente lasciano spazio a un senso di amore e soprattutto di assoluzione. Così anche laddove sembrava impossibile cancellare e riparare, la natura fa il suo corso e ricostruisce: i fiori primaverili sbocciano nuovamente nei campi, i girasoli ricrescono, i frutti maturano ancora alla fine di ogni estate, e anche il sentimento verso una madre ‘sbagliata’ è in grado di (ri)nascere in una nuova forma, sottolineando quando è importante il senso del perdono.
“Gli occhi di mia madre erano uno sbaglio
Gli occhi di mia madre erano i resti di una madre bella
Gli occhi di mia madre piangevano da dentro
Gli occhi di mia madre erano il desiderio di una cieca avverato dal sole
Gli occhi di mia madre erano campi di steli infranti
Gli occhi di mia madre erano le storie che non mi aveva mai raccontato
Gli occhi di mia madre erano gli oblò di un sommergibile di smeraldo
Gli occhi di mia madre erano conchiglie cresciute sugli alberi
Gli occhi di mia madre erano cicatrici sulla faccia dell’estate
Gli occhi di mia madre erano germogli in attesa”